È frequente, sul posto di lavoro, che insorgano malumori di vario tipo, vuoi nell’ambito dei rapporti con i propri colleghi, vuoi nell’ambito dei rapporti con i propri superiori gerarchici.
Alcuni di questi malumori, peraltro, sono suscettibili di tradursi in patologie rientranti nello “stress lavoro-correlato” che l’INAIL qualifica alla stregua di una vera e propria malattia professionale, con insorgenza del diritto, in favore del soggetto che ha contratto tale patologia, al correlato trattamento economico dovuto per qualunque ipotesi di infortunio.
Quanto precede nulla toglie, ovviamente, all’ulteriore diritto del lavoratore a essere risarcito per ogni danno – di natura, principalmente, non patrimoniale – connesso al proprio stato di malattia, soprattutto laddove quest’ultimo sia conseguenza di atteggiamenti mobbizzanti (ossia atteggiamenti legati tra loro da una continuità e sistematicità tali da emarginare il dipendente nel/dal contesto lavorativo) o stranianti (ossia atteggiamenti che, pur non sistematici e continuativi, sono comunque diretti a cagionare l’isolamento del dipendente) oppure ancora vessatori, e dunque frutto di una o più condotte illegittime poste in essere dal datore di lavoro.
Ciò, però, con la precisazione che non ogni comportamento datoriale ritenuto illegittimo dal lavoratore potrà essere ascritto nell’ambito dell’una o delle altre fattispecie sopra menzionate e, quindi, dar luogo alle rivendicazioni risarcitorie accordate dall’art. 2087 Cod. Civ. in caso di violazione degli obblighi di prevenzione e di sicurezza, anche psichica, cui ogni datore di lavoro è tenuto.
Invero, perché sia configurabile un risarcimento, è richiesto un comportamento di evidenza e gravità tale da travalicare la soglia di sensibilità o ipersensibilità – non obiettivamente misurabile – di cui ciascun soggetto è portatore; a tal proposito, la giurisprudenza di merito ha già avuto modo di sancire che “non si può … pensare che ogni screzio, o inurbanità , o scortesia, o persino qualsiasi maleducazione o offesa, vengano attratte nell’imbuto cieco di una ipertrofia di tutele risarcitorie. È opportuno riservare la valutazione di illiceità alle situazioni più gravi di patologia dell’organizzazione, al netto delle ipersensibilità soggettive” (Trib. Roma, Sez. Lav., 5238/2018).
Dello stesso avviso, tra l’altro, è anche la Suprema Corte di Cassazione che, con una recente ordinanza (29059/2022), ha evidenziato come la “accesa conflittualità” registrata sul posto di lavoro, se “non … trasmodata in una condotta vessatoria”, non può ritenersi di per sé nociva e, dunque, dar luogo a un correlato risarcimento del danno. Di fatti, “il rapporto interpersonale, specie se inserito in una relazione gerarchica continuativa … è in sé possibile fonte di tensioni, il cui sfociare in una malattia del lavoratore non può dirsi, se non vi sia esorbitanza nei modi rispetto a quelli appropriati per il confronto umano … ragione di responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c.”.
Sia ben chiaro: con tale provvedimento, ovviamente, il Supremo Collegio non intende minimamente ridimensionare la sfera soggettiva individuale, bensì semplicemente ribadire che, laddove si lamenti una lesione alla propria integrità psico-fisica, la stessa non può dirsi mai dimostrata in automatico, per quanto il contesto lavorativo possa rivelarsi “bellicoso”.
Sicché, è bene premunirsi di strumenti che siano in grado di far emergere quella lesione in un modo quanto più obiettivo possibile (e, meglio ancora, in modo scientifico, come avviene, ad esempio, per il tramite di apposite perizie medico-legali).