L’art. 12 del d.lgs. n. 124/2004 consente al competente Ispettorato Territoriale del Lavoro di adottare ed emanare un apposito “atto di diffida” a che il datore di lavoro corrisponda al lavoratore i crediti patrimoniali che dovessero scaturire in favore di quest’ultimo a fronte di un qualsivoglia inadempimento datoriale alla disciplina contrattuale applicabile al rapporto intercorrente, o intercorso, tra le parti (cfr. art. 12, comma 1, d.lgs. n. 124/2004).

Avverso questa diffida è risaputo che il datore di lavoro possa promuovere, entro il termine di trenta giorni dalla sua notifica, un tentativo di conciliazione dinanzi al medesimo Ispettorato che l’ha emessa, anche per tentare di definire bonariamente ogni questione connessa al rapporto di lavoro ed evitare conseguenze in ordine al versamento di contributi previdenziali sui crediti patrimoniali oggetto di accertamento, oppure ricorso al Direttore dell’ufficio che ha adottato l’atto in questione (cfr. art. 12, comma 2, d.lgs. n. 124/2004).

Meno note sono le conseguenze cui potrebbe andare incontro il datore di lavoro che non abbia esperito né la strada della conciliazione, né la strada dell’opposizione. In questi casi, infatti, la legge si limita a sancire che la diffida così emessa possa essere confermata e munita di efficacia esecutiva (cfr. art. 12, comma 3, d.lgs. n. 124/2004); fatto questo, quella medesima diffida verrà notificata al datore di lavoro, affinché il lavoratore possa intraprendere contro di questi un’azione esecutiva (i.e.: pignoramento dei beni e dei conti correnti) per il recupero dei crediti patrimoniali accertati in suo favore dall’Ispettorato.

Nel mentre, però, che al lavoratore è concesso intraprendere questa strada, è concesso al datore di lavoro opporsi, in sede giudiziale, contro i contenuti della medesima diffida? A questa domanda la Suprema Corte di Cassazione ha risposto in senso affermativo (ord. n. 23744/2022), precisando che “il mancato ricorso [n.d.r.: avverso la diffida accertativa emessa dall’Ispettorato] o il rigetto dello stesso comportano che la diffida acquisisca efficacia di titolo esecutivo ma non esclude che l’interessato possa contestare in giudizio l’esistenza del diritto in essa riportato”.

Il ragionamento dei Giudici di legittimità, per così dire, “non fa una piega”: nessuna norma di legge regolamenta ovvero vieta al datore di lavoro di promuovere una separata azione giudiziale, contro i contenuti della diffida accertativa, al fine di dimostrare l’insussistenza dei presupposti dell’azione intrapresa dall’Ispettorato. Il fatto che il provvedimento in questione abbia valenza di “titolo esecutivo” non significa che esso sia, per ciò solo, “irretrattabile”.

Diversamente opinando, vi sarebbe un serio rischio, per chi subisce la diffida accertativa, di veder leso il proprio diritto di difesa (art. 24 Cost.). Ciò, per di più, a fronte di un mero “atto amministrativo”, e non certo una sentenza, basato pur sempre su “valutazioni conclusive rese nelle relazioni ispettive [che] costituiscono elementi di convincimento con i quali il giudice deve criticamente confrontarsi … unitamente alle altre risultanze istruttorie raccolte o richieste dalle parti … non potendoli recepire aprioristicamente” e non facenti, dunque, piena prova fino a querela di falso (Cass. Civ., Sez. Lav., ord. n. 3420/2022).

Da qui, in sostanza, la possibilità di poter sempre contestare, in giudizio, i contenuti della diffida accertativa e i suoi presupposti ispettivi.