Uno dei principali rischi che possono concretizzarsi in seguito alla cessazione di un rapporto di lavoro è, senz’altro, quello che l’ex dipendente possa “convincere” i propri ex colleghi a seguirlo in una nuova iniziativa imprenditoriale cui intende dare vita. Ciò a maggior ragione se quest’ultima iniziativa poggia – in tutto o in parte – su un core business analogo a quello che contraddistingue la società ex datrice di lavoro .

Questo fenomeno di convincimento, meglio conosciuto con il termine di “storno di dipendenti” o di “cherrypicking” (letteralmente, “raccolta delle ciliegie” e che si riferisce allo storno di solo determinate figure professionali), può, a certe condizioni, essere annoverato tra gli atti di concorrenza sleale, ossia tra quegli atti imprenditorialmente illeciti che sono sanzionati dal nostro ordinamento con i rimedi di cui agli artt. 2598 e ss. Cod. Civ..

Tuttavia, se fosse sempre configurabile un siffatto “obbligo di astensione” da parte dell’ex dipendente per il sol fatto di aver intrattenuto, in passato, un qualsiasi rapporto di lavoro, la naturale conseguenza di ciò sarebbe quella di dar vita a un vero e proprio immobilismo lavorativo. Il che, però, contrasta con i principi di libera circolazione dei lavoratori sanciti, in primo luogo, dalla normativa europeistica (cfr. art. 45 TFUE).

Pertanto, la giurisprudenza ha individuato delle ipotesi in cui l’opera di convincimento esercitata nei confronti dei dipendenti di un’impresa, affinché questi lascino il loro datore di lavoro in favore di un altro, può non costituire un atto di concorrenza sleale.

Una di queste ipotesi è stata analizzata dalla Sezione Speciale Imprese del Tribunale di Milano nelle more dell’emergenza da Covid-19 (sent. n. 1727/2020, resa peraltro disponibile solo di recente): il casus belli concerneva, appunto, il preteso storno di figure professionali quali “fotografi, stylist, art buyer, ecc.”, tutti impiegati nel ramo d’azienda dell’ex datore di lavoro dedicato al food, a opera di una ex dipendente che intendeva dar vita a un’iniziativa imprenditoriale analoga a quest’ultima.

A favore della tesi dell’ex datore di lavoro militava il fatto che i dipendenti ritenuti stornati avevano avuto colloqui con l’ex dipendente stornante e rappresentavano, non a caso, il know how essenziale per lo svolgimento della propria attività imprenditoriale, stante la loro non fungibilità con altre figure analoghe.

A favore, invece, della tesi dell’ex dipendente militava il fatto che quei dipendenti ritenuti stornati non avevano ricevuto, dalla loro ex collega, offerte di remunerazione appositamente calibrate in modo tale da distoglierli dal loro datore di lavoro e, anzi, avevano manifestato – come si è evinto dalle testimonianze raccolte in giudizio – una certa insofferenza verso il proprio datore di lavoro originario, nei cui confronti addebitavano l’assenza, da molto tempo, di opportunità lavorative consone con la loro professionalità.

Da qui, dunque, la conclusione del Giudice meneghino secondo cui le scelte della forza lavoro di essere ingaggiata presso la loro ex collega si inseriscono in una normale “dinamica del mercato” e non costituiscono l’atto finale di un’opera di coercizione e/o di illecita sottrazione.

Si tratta, a onor del vero, di un provvedimento abbastanza asciutto sul punto, ma che offre interessanti spunti circa l’importanza e rilevanza delle circostanze di fatto che devono essere allegate per dimostrare, in concreto, la presunta esistenza di un simile atto di concorrenza sleale.