In linea di principio, le esigenze produttive e organizzative del datore di lavoro sono contemperate con le esigenze dei soggetti che assistono persone affette da handicap (c.d. “caregiver”). Tale contemperamento può portare, ad esempio nei casi di trasferimento del lavoratore, a prediligere altra risorsa da trasferire oppure a scegliere la sede di lavoro meno lontana dalla residenza e/o dimora della persona bisognosa di assistenza.

Peraltro, la legge precisa che solo nei casi di handicap grave (art. 33, comma 3, legge n. 104/1992) il caregiver potrà vantare il “diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere” e il diritto a “non … essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede” (art. 33, comma 5, legge n. 104/1992), in aggiunta all’ulteriore e notorio diritto a “fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa”.

Si tratta, a ben vedere, di diritti che possono essere esercitati soltanto a patto che sussista la documentazione idonea a dimostrare, anzitutto, il grave status di handicap in cui versa il soggetto bisognoso di assistenza e a patto che quella documentazione sia stata debitamente portata a conoscenza del datore di lavoro.

Conseguenza di ciò è che l’esercizio dei diritti previsti dalla legge in favore del caregiver non può mai avvenire in reazione a un comportamento datoriale, magari con l’intento di ostacolarlo o di paralizzarlo: una simile condotta, per vero, non rispecchierebbe i principi di buona fede e correttezza cui quei diritti devono, comunque, attenersi (Cass. Civ., Sez. Lav., 17102/2021).

Non solo. Una simile condotta non salverebbe neppure il dipendente dalla più grave delle sanzioni che il datore di lavoro può comminare, ossia il licenziamento.

Su quest’ultima ipotesi si è soffermata, di recente, la Suprema Corte di Cassazione (25836/2022), che ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato a una lavoratrice che, per evitare di essere trasferita presso altra sede di lavoro, ha fatto valere, solo dopo aver ricevuto l’ordine di prendere servizio nella nuova sede, dapprima il suo diritto a ottenere alcune giornate di permesso per assistenza a un familiare affetto di handicap e poi la propria astensione del lavoro per c.d. “congedo straordinario”, della durata di cinque mesi, basato sui medesimi motivi assistenziali.

Il tutto, però, in assenza del benché minimo confronto con il datore di lavoro e, ancor più, in assenza (i) di una documentazione valida al momento dell’intimazione del trasferimento e idonea a dimostrare, a quella data, lo status di handicap grave in capo al familiare da assistere; (ii) di una previa conoscenza di tale circostanza da parte del datore di lavoro ben prima del trasferimento, non avendo la lavoratrice neppure mai chiesto permessi retribuiti per handicap grave; (iii) di una previa domanda all’INPS volta allo stabile riconoscimento dei diritti legati status di handicap grave e del positivo riscontro dell’Istituto rispetto a quest’ultima.

Evidente, dunque, come tale condotta della lavoratrice non sia stata ritenuta idonea a giustificare la di lei assenza presso la nuova sede di lavoro entro la data di sposta dal datore di lavoro e, quindi, a evitarle un licenziamento – appunto – per assenza ingiustificata.